La deducibilità delle spese di rappresentanza nei redditi professionali: profili critici alla luce dell’ordinanza della Cassazione n. 26553/2025

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

Nel panorama tributario italiano, la pronuncia resa con l’ordinanza n. 26553/2025 dalla Suprema Corte, sezione tributaria, costituisce un momento di rilievo per la riflessione dottrinaria e applicativa attorno al tema della deducibilità fiscale delle spese di rappresentanza nel contesto del lavoro autonomo. Sebbene la vicenda concreta abbia interessato un professionista iscritto ad un albo, l’indirizzo giurisprudenziale richiamato riveste valenza generale per l’insieme degli operatori professionali, imponendo una disciplina rigorosa che non può essere traslata automaticamente da quella prevista per le imprese.

L’ordinamento fiscale, attraverso l’art. 54 del D.P.R. n. 917/1986 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi, TUIR), contempla la possibilità che i professionisti deducano le «spese di rappresentanza», ma ciò avviene sotto il vincolo di un limite quantitativo — pari all’1% dei compensi percepiti nel periodo d’imposta — e, soprattutto, in presenza del soddisfacimento dei requisiti di inerenza e congruità. L’adozione di tali oneri è dunque ammessa entro tali confini, ma non implica alcuna automaticità nella loro accoglienza fiscale.

La Suprema Corte, nel caso di specie, ha ribadito che alla mera qualificazione contabile dell’onere non può seguire, di per sé, l’accoglimento della deduzione. Il professionista era chiamato ad assolvere un onere probatorio stringente: dimostrare che gli esborsi qualificati come di rappresentanza fossero effettivamente riconducibili all’attività professionale, in quanto volti a promuovere rapporti con la clientela o con il mercato; che costituissero erogazioni gratuite coerenti con dinamiche del settore; e che non fossero finalità meramente personali o estranee al centro dell’attività esercitata.

La decisione della Cassazione segna una linea interpretativa che insiste con forza su alcuni punti critici:

  1. Inerenza come nucleo concettuale imprescindibile
    L’inerenza dei costi rappresenta il presupposto fondamentale per la deducibilità fiscale. Tale principio impone che l’onere sostenga un rapporto funzionale e adeguato con l’attività svolta. Non si tratta di un legame meramente astratto, ma di una connessione che deve essere evidenziata tramite elementi fattuali e documentali. Il professionista deve dimostrare che il costo abbia una destinazione promozionale reale e non occasionale. La Corte ha respinto l’idea che l’astratta idoneità del bene o del servizio a rientrare nella categoria delle spese di rappresentanza possa supplire alla prova concreta della destinazione promozionale.

In particolare, l’attendibilità di tale prova non può risolversi in deduzioni generiche o congetture, ma deve fondarsi su una ricostruzione fattuale che coinvolga documenti, circostanze e collegamenti logici. Il giudizio di inerenza non può divenire terreno di semplice plausibilità, bensì deve poggiare su dati verificabili.

  1. La dimensione della gratuità e la sua rilevanza probatoria
    Nell’ordinanza si sottolinea che la gratuità — ossia la caratteristica secondo cui il bene o servizio sia posto a disposizione senza un corrispettivo diretto — rappresenta un elemento indicativo ma non determinante per qualificare un costo come spesa di rappresentanza. La gratuità integra un indice rilevabile nel quadro della verifica, ma non costituisce condizione sine qua non. Ciò significa che la presenza di un corrispettivo non esclude a priori la funzione promozionale, purché si dimostri che l’elemento gratuito non costituisse il nucleo della prestazione. In altri termini, la Corte enfatizza che è la funzione e la destinazione del bene o servizio a prevalere sulla mera forma.
  2. Congruità e coerenza rispetto alle prassi del settore
    Non meno rilevante è la questione della congruità del costo e della sua conformità alle prassi tipiche del settore in cui il professionista opera. La Corte evidenzia che anche la proporzionalità dell’onere rispetto al giro d’affari e la coerenza con le prassi operative del settore non sono meri abbellimenti ma criteri che contribuiscono a rafforzare – o ad indebolire – la credibilità della deduzione prospettata. Un costo eccessivo rispetto alla normale operatività del settore o una destinazione che appaia estranea alle consuetudini di spesa professionale può costituire indizio negativo in ordine all’effettiva funzione promozionale.
  3. Il regime sanzionatorio e la natura della violazione
    La pronuncia affronta anche la questione sanzionatoria: l’errata indicazione di un costo non inerente nelle scritture contabili può integrare una violazione rilevante anche sotto il profilo formale, ai sensi dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 471/1997. In altri termini, la Corte nega la tesi secondo cui l’errore in deduzione – purché relativo a spese non inerenti – debba essere trattato come mera violazione sostanziale (art. 1, co. 2, del medesimo decreto). Quando l’annotazione in contabilità incide sulla trasparenza e sulla correttezza formale delle scritture, l’infrazione assume valenza formale punibile. Questa impostazione rafforza l’esigenza che i documenti contabili riflettano una realtà coerente e verificabile e non una classificazione generica soggetta a dubbi.
  4. Elementi documentali e tracciabilità come chiavi di sostenibilità del ragionamento
    A fronte di oneri qualificabili come «omaggi, premi o altri beni dati gratuitamente», la Cassazione richiede che il contribuente abbia predisposto un sistema di rendicontazione idoneo a dimostrare, con chiarezza, la destinazione del bene o servizio. L’assenza di una documentazione analitica che consenta di ricondurre l’oggetto distribuito a specifici destinatari nell’ambito di relazioni professionali è motivo decisivo per escluderne la deducibilità. La prassi giurisprudenziale è già ben orientata in questa direzione: per beni «fungibili», come i buoni carburante, la Corte ha insistito sulla necessità di distinzione e tracciabilità rispetto a beni destinati alla normale vendita al pubblico, onde evitare che si fondi un uso promiscuo.

In concreto, il contribuente deve dimostrare che ogni bene ceduto gratuitamente sia stato effettivamente destinato a soggetti terzi con rapporti potenzialmente promozionali rispetto all’attività professionale, che sia stato documentato il collegamento tra omaggio e contesto professionale, e che non vi siano elementi che possano far ritenere un uso personale.

  1. Ricadute per la prassi professionale e raccomandazioni operative
    Da quanto emerge, l’ordinanza n. 26553/2025 impone per i professionisti un livello di disciplina interna delle spese di rappresentanza che sembrava più familiare alla gestione d’impresa. È raccomandabile che ogni studio professionale, sin dalle fasi antecedenti al sostenimento dell’onere, si doti di procedure preventive: redazione di budget promozionali, modulistica interna per l’approvazione preventiva della spesa, attribuzione nominativa dei destinatari del bene o servizio, tempestiva documentazione del contesto promozionale e delle iniziative correlate, e valutazione comparativa della spesa nei confronti delle prassi del settore.

In futuro, la gestione fiscale delle spese di rappresentanza da parte dei professionisti non potrà più limitarsi a considerazioni generiche ma richiederà una architettura documentale robusta e coerente, che possa reggere, in sede contenziosa, la rigorosa analisi demandata al giudice di merito.

  1. Rapporto con la disciplina delle spese pubblicitarie e distinzione concettuale
    Occorre brevemente accennare al tema dell’articolazione tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità (o propaganda), quest’ultime caratterizzate da una finalità promozionale diretta, specifica e immediata sul prodotto o servizio. La distinzione è già ben radicata nella giurisprudenza e nella dottrina: mentre la spesa di rappresentanza tende a valorizzare l’immagine dell’operatore o della struttura stessa, con benefici indiretti e mediati, quella di pubblicità è orientata direttamente a incrementare la domanda di un bene o servizio offerto. In alcune pronunce la Corte ha ribadito che, in materia imponibile IVA e deducibilità, questa distinzione è essenziale per qualificare la natura dell’esborso e per verificare la sua appartenenza a una categoria piuttosto che all’altra. (Cfr. in dottrina: distinzione tra obiettivo promozionale indiretto e diretto)
  2. Limiti normativi e prospettive evolutive
    È doveroso ancorare queste considerazioni al contesto normativo più generale: l’art. 108, comma 2, TUIR fissa la possibilità per le imprese di dedurre le spese di rappresentanza secondo criteri stabiliti con decreto ministeriale; il D.M. 19 novembre 2008 ha tentato di armonizzare e precisare i confini di operatività di tale disciplina, prevedendo che le erogazioni gratuite di beni e servizi, se in linea con le pratiche commerciali del settore e ragionevoli negli importi, possono qualificarsi come inerenti. La Cassazione, però, indica che anche l’operatività del D.M. 2008 non dispensa dall’onere probatorio e dalla verifica rigorosa dell’effettiva destinazione promozionale dell’onere.

In prospettiva, l’orientamento emerso potrebbe spingere verso una maggiore disciplina normativa di dettaglio, specie nel settore delle professioni intellettuali, affinché si definiscano criteri predeterminati di tracciabilità, soglie di importo e modalità di rendicontazione affinché il contribuente disponga di guide certe per evitare il contenzioso.

L’ordinanza Cass. n. 26553/2025 non solo conferma l’attenzione del giudice di legittimità sul rigoroso controllo delle spese dedotte in dichiarazione, ma costituisce richiamo forte alla responsabilità documentale del professionista. La deducibilità delle spese di rappresentanza, in ambito professionale, non può più essere considerata area neutra: è indispensabile che l’onere sia accompagnato da un’articolata dimostrazione della sua effettiva funzione promozionale, da un sistema di tracciabilità e da una giustificazione interna che resista a un scrutinio rigoroso. Chi eserciti una professione dovrà quindi strutturare la propria gestione delle spese con meticolosità e consapevolezza, consapevole che in caso di carenza probatoria l’orizzonte non è solo la disconoscibilità del costo, ma anche l’applicabilità delle sanzioni previste per violazioni formali significative.

La recente ordinanza n. 26553/2025 della Corte Suprema di Cassazione, sezione tributaria, offre un’interessante occasione per riesaminare criticamente il trattamento fiscale delle spese di rappresentanza sostenute dai professionisti, ponendo l’accento sull’esigenza imprescindibile della prova dell’inerenza rispetto all’attività esercitata. La decisione, pur traendo origine da una fattispecie concreta che ha riguardato un libero professionista iscritto all’albo, assume rilevanza generale per l’intero comparto delle professioni intellettuali.

Nel sistema fiscale italiano, le spese di rappresentanza sono, ai sensi dell’art. 54 del D.P.R. n. 917/1986 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi, di seguito “TUIR”), potenzialmente deducibili per i professionisti, entro il limite dell’1% dei compensi percepiti nel periodo d’imposta. Tuttavia, tale deducibilità è subordinata a condizioni stringenti, tra cui la necessaria dimostrazione dell’inerenza, concetto che esprime il nesso funzionale tra il costo sostenuto e l’attività esercitata, e che deve essere provato dal contribuente secondo i criteri generali in tema di ripartizione dell’onere probatorio (ex art. 2697 cod. civ.).

La Corte, richiamando orientamenti giurisprudenziali consolidati, ha ribadito che non è sufficiente l’astratta idoneità del bene o del servizio a rientrare nella categoria delle spese di rappresentanza per fondare la deducibilità del relativo costo. Occorre, invece, fornire una prova puntuale, concreta e specifica della destinazione dell’onere a finalità promozionali dell’attività professionale. In assenza di tale riscontro, il costo si presume sostenuto per esigenze personali e, come tale, non deducibile.

Nel caso in esame, oggetto di contestazione erano esborsi qualificati come spese di rappresentanza, tra cui l’acquisto di beni di pregio e l’erogazione di premi a studenti. Sebbene tali uscite potessero, in astratto, essere ricondotte alla nozione fiscale di rappresentanza, la Cassazione ha ritenuto che il contribuente non avesse assolto all’onere probatorio sull’effettiva finalità promozionale. Particolare rilievo è stato attribuito all’omessa dimostrazione della destinazione dei beni a soggetti terzi nell’ambito di relazioni d’affari, non essendo sufficiente la mera affermazione dell’intento promozionale.

Si osserva, inoltre, che la Corte ha opportunamente precisato come il giudizio di inerenza non possa risolversi in una valutazione meramente congetturale o probabilistica, ma debba fondarsi su riscontri documentali e circostanze oggettive, la cui valutazione è riservata al giudice del merito. L’inerenza, dunque, non può essere desunta ex post dalla natura del bene o dalla genericità dell’intento, bensì richiede un collegamento specifico e dimostrabile con l’attività esercitata.

Ulteriore aspetto rilevante affrontato nell’ordinanza concerne la sanzione amministrativa applicata dall’Amministrazione finanziaria in relazione alla indebita deduzione dei costi. Il professionista aveva invocato l’applicazione dell’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 471/1997, relativo alle violazioni sostanziali, sostenendo l’inconferenza della sanzione irrogata ai sensi dell’art. 9, comma 1, dello stesso decreto, norma riferita alla irregolare tenuta della contabilità. La Corte, tuttavia, ha confermato la legittimità della sanzione comminata, chiarendo che l’indebita contabilizzazione di costi non inerenti può integrare una violazione formale rilevante, qualora incida sulle scritture contabili e sulla trasparenza delle stesse, in quanto pregiudizievole per l’esercizio dei poteri di controllo da parte dell’Amministrazione.

Appare evidente, dunque, che l’ordinanza in commento rafforza l’orientamento interpretativo volto a contenere la portata della deducibilità delle spese di rappresentanza, soprattutto in ambito professionale, imponendo una rigorosa prova della loro effettiva funzione promozionale. Tale indirizzo si pone in linea con l’esigenza di contrastare l’utilizzo distorto di tale categoria di oneri, che troppo spesso vengono impiegati per finalità estranee al perimetro dell’attività professionale.

In quest’ottica, la giurisprudenza di legittimità si è consolidata nell’affermare che, per poter essere considerate deducibili, le spese devono essere supportate da una documentazione idonea a dimostrare la loro connessione con operazioni promozionali effettivamente poste in essere. Tale orientamento si ricollega, sul piano sistematico, alla nozione di diligenza professionale qualificata, che impone al contribuente, in quanto soggetto dotato di specifiche competenze tecniche, un onere probatorio aggravato in ordine alla legittimità fiscale delle scelte contabili operate.

La distinzione con le spese di pubblicità e propaganda, che risultano pienamente deducibili e hanno natura diversa rispetto a quelle di rappresentanza, si fa quindi sempre più marcata, giacché le prime sono dirette ad un incremento immediato e diretto della domanda di beni e servizi, mentre le seconde mirano ad accrescere l’immagine del professionista in modo mediato e spesso non quantificabile in termini di ritorno economico diretto.

Si può ritenere che la pronuncia della Suprema Corte ribadisca un principio di diritto destinato a fungere da parametro per l’intera platea dei professionisti: l’onere di dimostrare l’inerenza delle spese di rappresentanza incombe sul contribuente, che deve fornire evidenze documentali precise e coerenti con la natura dell’attività esercitata. In difetto, la deducibilità del costo non può essere riconosciuta, con le conseguenze sanzionatorie che ne derivano in caso di indebita indicazione in dichiarazione.

Si prospetta, pertanto, un inevitabile rafforzamento della funzione probatoria nell’ambito delle scelte contabili professionali, in un contesto in cui la documentazione, la tracciabilità e la coerenza funzionale assumono un rilievo centrale per la sostenibilità fiscale degli oneri dedotti.

3 ottobre 2025

La Cassazione sul licenziamento disciplinare per condotte extralavorative: l’equilibrio tra vincolo fiduciario, proporzionalità della sanzione e tutela del giusto processo

A cura dell’Avv. Francesca Coppola

L’ordinanza n. 24100 del 28 agosto 2025, pronunciata dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, offre l’opportunità di riflettere con rinnovata attenzione su alcuni snodi cruciali della disciplina del licenziamento disciplinare, in particolare sul rilievo delle condotte extralavorative penalmente rilevanti, sul giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione espulsiva e sul principio di tempestività della contestazione.

La vicenda prende le mosse dal recesso intimato a un lavoratore a seguito di condanna penale definitiva per reiterate condotte offensive e violente nei confronti di pubblici ufficiali, maturate nel contesto delle tifoserie calcistiche. Nonostante tali fatti fossero del tutto estranei all’esecuzione della prestazione lavorativa, il datore di lavoro aveva ritenuto irrimediabilmente compromessa la possibilità di proseguire il rapporto, in quanto la condotta dell’interessato aveva inciso sulla sua figura morale, compromettendo quel legame fiduciario che costituisce il presupposto indefettibile di ogni rapporto di lavoro subordinato.

La Corte d’appello di Catania aveva già posto in luce la gravità oggettiva e soggettiva delle condotte, richiamando la reiterazione dei comportamenti, la loro natura di istigazione alla violenza e la particolare offensività nei confronti di istituzioni pubbliche. È stato così valorizzato il disvalore penale e sociale dei fatti, in quanto lesivi della dignità e del prestigio del corpo di polizia, nonché incompatibili con i doveri di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. e con l’obbligo di diligenza professionale qualificata imposto dall’art. 2104 c.c.

La Cassazione, investita della questione, ha confermato la legittimità del licenziamento, ribadendo due direttrici interpretative ormai consolidate. In primo luogo, il giudizio di proporzionalità tra la gravità dell’addebito e la sanzione espulsiva spetta al giudice di merito e non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei casi estremi di motivazione assente, contraddittoria o manifestamente illogica. Tale impostazione deriva dalla natura valutativa e discrezionale di tale giudizio, che implica l’apprezzamento del contesto concreto, della reiterazione delle condotte, dell’intensità dell’elemento soggettivo e della lesione del vincolo fiduciario. Si osserva, pertanto, come il sindacato della Cassazione si limiti a garantire il rispetto di un minimum costituzionale nella motivazione, senza invadere il terreno della ponderazione fattuale, tipicamente riservata al giudice di merito.

In secondo luogo, la Suprema Corte ha affrontato il tema della tempestività della contestazione disciplinare, chiarendo che il termine di riferimento decorre non dal momento in cui il datore potrebbe astrattamente venire a conoscenza del fatto, ma da quello in cui egli acquisisce certezza della condanna definitiva. Tale ricostruzione valorizza il principio della buona fede contrattuale e la necessità di evitare contestazioni premature, basate su elementi non ancora consolidati, che potrebbero arrecare pregiudizio ingiustificato al lavoratore. La ratio di tale orientamento è duplice: da un lato si tutela il datore di lavoro che attende l’esito definitivo del giudizio penale prima di assumere una decisione così grave e irreversibile come il licenziamento; dall’altro lato, si preserva il lavoratore da contestazioni avventate e prive di adeguato fondamento probatorio.

Quanto al profilo della parità di trattamento disciplinare, la Cassazione ha escluso l’esistenza di un principio generale che vincoli il datore ad uniformare le proprie decisioni rispetto a condotte analoghe poste in essere da altri dipendenti, salvo il caso di identità assoluta delle situazioni. Ne consegue che la diversità di trattamento non è di per sé indice di illegittimità, a meno che non emerga un vero e proprio intento discriminatorio o ritorsivo. In tal senso, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il licenziamento nullo per ritorsione richiede che il motivo illecito abbia carattere esclusivo e determinante, nel senso che la motivazione formalmente addotta risulti insussistente e l’unico vero fondamento del recesso sia rappresentato da una finalità punitiva o vendicativa. Nel caso esaminato, la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, riconosciuto tanto in primo grado quanto in appello, ha escluso in radice la configurabilità di un licenziamento ritorsivo.

Appare evidente, alla luce di tale pronuncia, che il tema centrale rimane quello del rapporto fiduciario quale elemento strutturale del contratto di lavoro. La perdita di fiducia si configura non soltanto in presenza di violazioni contrattuali dirette, ma anche quando la condotta del lavoratore, seppur estranea alla prestazione lavorativa, risulti incompatibile con i valori etici e morali che l’impresa ritiene imprescindibili per la corretta prosecuzione del rapporto. Si delinea, in tal senso, un’estensione del controllo giudiziale sulla moralità del lavoratore, la quale, pur non potendo essere ridotta a una clausola generale di conformità etica, viene concretamente declinata alla luce delle circostanze e della natura delle condotte, secondo un criterio di ragionevolezza e proporzionalità.

Questa ordinanza rafforza l’orientamento secondo cui il licenziamento disciplinare può fondarsi anche su fatti extralavorativi, laddove essi siano idonei a ledere la reputazione e l’affidabilità del lavoratore in misura tale da rendere insostenibile la prosecuzione del rapporto. L’elemento fiduciario, così, si conferma fulcro e criterio dirimente dell’intera disciplina, nella prospettiva di un equilibrio tra tutela del prestatore e legittima esigenza datoriale di affidarsi a collaboratori moralmente integri e professionalmente affidabili.

1 ottobre 2025

La rilevanza penale della violenza verbale nei rapporti familiari: la configurabilità dei maltrattamenti ex art. 572 c.p. alla luce della giurisprudenza di legittimità

A cura dell’Avv. Francesco Cervellino

La recente pronuncia della Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, n. 30780 del 15 settembre 2025, costituisce un rilevante punto di approdo in ordine all’estensione applicativa dell’art. 572 cod. pen., il quale disciplina il delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi. In particolare, la decisione affronta con rigore ermeneutico il tema della riconducibilità a tale fattispecie incriminatrice di comportamenti verbali reiteratamente offensivi, capaci di ledere la dignità e l’equilibrio psichico della vittima, pur in assenza di manifestazioni fisiche di violenza.

Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte trae origine dalla condanna inflitta nei confronti di un genitore accusato di aver rivolto, alla propria figlia minore, espressioni gravemente denigratorie, con particolare riferimento all’aspetto fisico della medesima. Le offese, reiterate nel tempo e contestualizzate in un arco cronologico di circa sei mesi (gennaio-luglio 2020), sono state ritenute di tale intensità da configurare un contesto esistenziale costantemente umiliante, con conseguenze afflittive sulla personalità in formazione della minore. La peculiarità della vicenda risiede altresì nella contestualizzazione pandemica, la quale aveva imposto una convivenza fisicamente limitata tra i soggetti coinvolti, ma non aveva interrotto il rapporto comunicativo, sebbene deformato in senso patologico dalla condotta paterna.

La Corte, valorizzando la specificità della relazione genitore-figlio, ha affermato che il requisito dell’abitualità, elemento strutturale della fattispecie criminosa in esame, può ritenersi sussistente anche laddove la frequenza materiale degli incontri sia ridotta, purché emerga una persistente modalità relazionale improntata alla sopraffazione, alla denigrazione e alla disistima sistematica. In tal senso, la Corte ha confermato la correttezza dell’operato dei giudici di merito che avevano ancorato l’accertamento della responsabilità penale ad una molteplicità di elementi convergenti, in grado di dimostrare la reiterazione delle offese e l’effettivo impatto lesivo sulla vittima.

La sentenza in esame si distingue altresì per un’affermazione di principio di particolare rilievo: il disvalore penale delle parole, quando queste si connotino per il loro contenuto fortemente umiliante, gratuito e reiterato, risulta pienamente equiparabile a quello delle condotte fisicamente violente. La violenza verbale, in contesto familiare, assume infatti una valenza lesiva aggravata dalla prossimità affettiva che dovrebbe costituire presidio di protezione e cura, trasformandosi invece in veicolo di annichilimento della persona offesa. La vittima, peraltro minore d’età e dunque dotata di una peculiare vulnerabilità psicoemotiva, è risultata oggetto di un’aggressione all’identità personale che ha inciso profondamente sul suo sviluppo psicologico, determinando una condizione di sofferenza costante.

In merito alla valutazione probatoria, è d’uopo evidenziare come la Corte abbia dato rilievo alla solidità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, giudicate coerenti, precise e dettagliate, nonché riscontrate da fonti esterne, quali le testimonianze dei familiari e la documentazione predisposta dai servizi sociali. Degna di nota risulta la metodologia processuale adottata in sede di appello, ove si è proceduto alla diretta visione della videoregistrazione dell’audizione protetta della minore, strumento ritenuto idoneo ad assicurare una più accurata percezione della credibilità soggettiva e dell’attendibilità oggettiva delle dichiarazioni rese.

Sotto il profilo processuale, è stato escluso qualsivoglia vizio motivazionale, così come è stata rigettata la doglianza difensiva circa la presunta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza. In particolare, la Corte ha chiarito che il richiamo ad un episodio successivo ai fatti oggetto di imputazione – ovvero un messaggio inviato dal padre alla figlia – non è stato utilizzato quale fondamento della responsabilità, bensì quale elemento sintomatico della permanenza dell’atteggiamento svilente, utile a rafforzare la ricostruzione del quadro relazionale disfunzionale.

La decisione si colloca dunque nel solco di un orientamento giurisprudenziale che, pur risalente, trova nella presente pronuncia un’importante conferma e ulteriore evoluzione. La tipicità del reato di maltrattamenti è oggi letta attraverso una lente interpretativa che privilegia la tutela sostanziale della persona, ancor più quando trattasi di soggetto minorenne, ponendo l’accento sulla qualità afflittiva della relazione familiare, più che sulla mera materialità della condotta.

Appare evidente come la pronuncia in esame consolidi un approccio interpretativo volto a riconoscere e sanzionare le forme più insidiose di violenza intrafamiliare, che si manifestano attraverso parole, atteggiamenti e silenzi eloquenti, capaci di produrre effetti lesivi profondi e duraturi. Essa assume una valenza paradigmatica nell’evoluzione della tutela penale dei soggetti deboli, confermando il ruolo centrale del giudice nel ricostruire con attenzione e sensibilità il contesto relazionale, attribuendo valore giuridico alla sofferenza psichica derivante da forme di maltrattamento che, seppur prive di contatto fisico, risultano egualmente distruttive dell’integrità personale della vittima.

1 ottobre 2025